CHE COSA c’è fuori, oltre le protezioni di cemento Jersey, al di là degli sbarramenti di sabbia Hesco-Bastion, nel nulla del deserto afgano? I soldati italiani lo sanno: fuori dalle basi di Herat, di Farah, di Bala Murghab c’è un paese stremato da rifondare, un esercito volenteroso da assistere, una popolazione disillusa da rinfrancare. E poi c’è l’Afghanistan degli insurgents: guerriglieri integralisti, studenti coranici, trafficanti di droga, mercanti d’armi, criminali comuni, tutti racchiusi sotto un’etichetta generica che da sola conferma la leggenda di un paese riottoso ad ogni presenza straniera.
Si esce tutti i giorni in pattuglia, confidando nella tecnologia dei blindati, incrociando le dita, e maledicendo la lentezza della politica. “Noi sappiamo di avere la coscienza tranquilla: il nostro lavoro lo facciamo bene”, dice un veterano dell’Afghanistan, per poi aggiungere: “Il problema è la politica. Se la ricostruzione non va avanti, se lo Stato centrale non ristabilisce il suo ruolo e anzi lascia spazi ai Taliban persino nell’amministrazione della giustizia, le prospettive non sono buone”.
Il nodo di tutto sono le elezioni in arrivo. “Gli afgani sanno che il voto può essere decisivo. È aumentata la presenza dei militari governativi nel territorio e sono aumentate le reazioni di chi non li vuole”, racconta un ufficiale reduce da Herat. L’appuntamento elettorale ha cambiato tutto: “Prima bisognava preparare al voto, con il censimento. Ora si deve controllare il territorio, perché il compito è garantire lo svolgimento delle elezioni. È cambiato il task, e assieme sono cambiate le condizioni sul terreno”, spiega un militare da poco rientrato in Italia. “Se gli attacchi aumentano, è perché i Taliban non vogliono il voto”, sintetizza un ufficiale: “Elezioni regolari sarebbero la sanzione del fallimento per chi non vuole questo Stato afgano”.
Il mantra ripetuto fra le stellette è sempre lo stesso: la missione Isaf consiste nell’assistenza al governo di Kabul, per garantire la sicurezza e permettere la ricostruzione. Non è una guerra, ma gli strumenti sono gli stessi, e anche il prezzo da pagare non può essere diverso. A Herat la perdita del giovane geniere ha lasciato una ferita profonda, anche perché c’è la coscienza che questa volta “San Lince” non ha fatto il miracolo. La tecnologia dei blindati italiani Vtlm aveva salvato altre vite, ma ieri a Farah non ha potuto far nulla. “Non esiste il mezzo invulnerabile”, ricorda un generale: “A mano a mano che avanzano le capacità difensive, vanno avanti anche quelle offensive”.
In altre parole, i Taliban hanno notato che i convogli Isaf usano mezzi sempre più protetti, come il “Lince” italiano, o come l’americano Cougar, schierato dai marines.
E la mossa successiva è stata scegliere quelli che nelle scorse settimane il generale Marco Bertolini ha definito “metodi subdoli”: ora aspettano con le auto imbottite di tritolo e si fanno saltare in aria proprio mentre passa il convoglio Isaf. Oppure, com’è successo ieri, aumentano enormemente la carica esplosiva, così da superare ogni protezione.
“Gli americani schierano mezzi di produzione sudafricana, specializzati per lo sminamento, che sembrano in grado di resistere a tutto. Poi però si scopre che sono pesantissimi, e che spesso finiscono per impantanarsi e restare bloccati”, spiega uno specialista. Insomma, sintetizza un ufficiale, in queste missioni la sicurezza totale non esiste: “Abbiamo visto questa escalation di attentati, era nell’aria. Facciamo il nostro dovere, come sempre. Ma usciamo in pattuglia pregando che non tocchi a noi”.
Fonte: La Repubblica