Cinema e handicap. Un binomio decisamente molto frequentato nella cultura degli ultimi 15-20 anni. Per varie ragioni.
La prima è che il cinema è uno dei luoghi principe della rappresentazione della disabilità, se non il luogo principe in virtù della potenza delle immagini che lo rendono, almeno apparentemente e per certi versi giustificatamene, capace di dare un volto ed un nome ad uno degli elementi centrali del pianeta handicap: il corpo della persona disabile. Un corpo da sempre giudicato “osceno”, ovvero fuori dalla scena del rappresentato e del rappresentabile. Il cinema quindi innanzitutto come pezzo del mondo della informazione, dell’immagine, della comunicazione culturale e sociale.
Il secondo motivo è di ordine, potremmo dire, culturale e didattico. La disabilità che si svincola dal primato della riabilitazione e della assistenza e diviene oggetto di riflessione culturale: pittura, cinema, letteratura, teatro, musica ed il loro rapporto con il tema della disabilità e della presenza di artisti disabili.
E ancora il raccordo del film sulla disabilità con gli altri filoni classici che evocano il diverso, l’alieno, l’attrazione/repulsione per chi è contemporaneamente uguale e altro da noi; fantascienza, horror, fantasy, per certi versi il giallo.
Scrivevano S. Bianchini e Pilar San Vicente in un vecchissimo numero della rivista Rassegna stampa handicap (maggio 1989) “… cinema e handicap occupa sempre più spazio su giornali, sia per il filone della cinematografia americana, sia per il cinema come strumento per proporre l’handicap alla attenzione della società… alcune perplessità tuttavia sorgono nel momento in cui, a volte, non si riesce a distinguere bene se risulta più importante la novità, lo strumento o la qualità del film”. Quasi vent’anni dopo i dubbi non sono stati fugati del tutto.