Sono trascorsi quattro anni, da quel 2 aprile 2005, eppure sembra ieri. Basta riandare al ricordo di quella sera, e di nuovo l’intensità dell’emozione, il vuoto dell’anima dinanzi alla morte si riappropria di noi, segnando lo smarrimento. È stato amato da tutti, fedeli e laici, credenti e agnostici e tutti ancora lo piangono. Leniti nel dolore coloro che si affidano a Dio, come ha fatto Karol Wojtyla durante tutta la sua esistenza, e sono consapevoli che la nostra vita è soltanto un passaggio, una sosta prima del ritorno “alla casa del Padre”.
Indiscrezioni della stampa polacca annunciano che questo sarà l’ultimo anno dell’attesa e che al 2 aprile del prossimo verrà il sollievo della sua salita agli altari. La Polonia, ha spiegato il cardinale Dziwisz, che gli è stato accanto tutta la vita e che è tornato nell’amata Cracovia, non può fare a meno di un suo santo protettore, soprattutto in questo inizio di millennio che ha poco da invidiare, nelle sue crisi, a quello appena trascorso. Il mondo, si potrebbe affermare con una convinzione che si allarga oltre il recinto dei cattolici, ha bisogno di tornare in comunione con il suo magistero e con il suo carisma.
Si vedrà se le speranze della nazione polacca si avvereranno. La Chiesa ha i suoi tempi anche se la volontà del suo successore e prima collaboratore e amico, Benedetto XVI, di dar corso al processo canonico, senza aspettare i fatidici cinque anni, lo ha di molto accelerato. Ma al di là delle regole e della prassi, che pur contano, il riconoscimento della santità di Karol Wojtyla non ha molti ostacoli da superare. Il primo miracolo che la sostiene è stato sotto gli occhi di tutti: miracolo straordinario perché ha mostrato che un cristiano può essere santo in modo ordinario, giorno dopo giorno, che si può vivere con coerenza la propria fede quali che siano le prove che la vita ci presenta. Insomma il miracolo è stato egli stesso, Karol Wojtyla, quando in totale dedizione di se stesso ha aperto il suo cuore a Cristo.
E non mancassero le prove che la sua vita ha dovuto superare: da un’infanzia senza madre e con la perdita successiva della sua famiglia, fino al duro lavoro nelle miniere, al contrasto da vescovo con un regime totalitario e senza Dio, a sperimentare infine sulla propria carne la sofferenza dell’attentato e della malattia. Il peso della sua “croce” avrebbe schiacciato chi non avesse avuto la sua fede. Da lui abbiamo imparato che anche noi possiamo sopportare le nostre prove, quali che siano. E questo è stato il miracolo che non ha bisogno di ulteriori conferme.
Ma il suo ricordo va oltre l’esemplarità della sua vita, anche se essa è alla base del suo magistero. C’è il suo carisma che ha pervaso e vivificato tutta la Chiesa. Il suo insegnamento che ha indicato una via e una soluzione agli affanni e allo smarrimento degli uomini. La sua certezza nell’aiuto della Provvidenza per coloro che avessero intrapreso un cammino di pace e di solidarietà fra i popoli e le nazioni. C’è, infine, quella straordinaria sua capacità di comunicare con i giovani, di saper infondere in loro un’alternativa ad una pseudo-cultura e a dei modelli che bruciano prima di tutto la loro anima.
Che Benedetto XVI lo ricordi insieme ai giovani è il più bel tributo alla sua memoria, a lui che ai giovani aveva dedicato un giorno di gioia e di preghiera nella Chiesa universale. Può suonare un po’ retorico, ma non lo è. La Chiesa, l’umanità stessa non hanno futuro se non sanno coinvolgere i giovani in un progetto dove i valori dell’uomo, della libertà, della vita non siano centrali.
L’alternativa è la supremazia del male sul bene, della sopraffazione, del mancato rispetto della dignità dell’uomo.
Aveva posto la persona umana al centro del suo magistero, non l’uomo come un atomo qualsiasi vagante nell’universo, ma con la sacralità che gli viene dall’essere creatura di Dio. Un uomo vero, con le sue esperienze concrete, le scelte da prendere ogni giorno, nel bene e nel male. Un uomo, dunque, orientato per sua natura alla solidarietà, alla condivisione dei beni del creato, al progresso e allo sviluppo. Ma anche esposto all’egoismo, alla voracità del potere, alle lusinghe della sfrenata ricchezza.
Parole profetiche le sue anche per il tempo di crisi che stiamo vivendo. Ammoniva, ad esempio, nella sua “Centesimus annus”, la terza delle sue encicliche sociali, che la mondializzazione dell’economia “può creare straordinarie occasioni di maggior benessere”, purché ad essa “corrispondano validi Organi internazionali di controllo e di guida che indirizzino l’economia stessa al bene comune”. Era il 1991, la finanza internazionale ancora non aveva inventato i suoi “titoli tossici”, ma le parole del Papa con l’esperienza di oggi appaiono profetiche: il disastro a cui stiamo assistendo dipende dall’aver deviato dai valori dell’uomo e della solidarietà in favore di una corsa all’arricchimento senza regole e controlli.
A quattro anni dalla sua scomparsa non basta, perciò, la commozione o il dolore a riempire il vuoto. Occorre, anche ora, nei tempi che viviamo, che non si perda il senso più profondo del passaggio terreno dell’uomo e del pastore Karol Wojtyla: la consapevolezza che il mondo, quello vero, ruota intorno all’uomo e alla sua dignità che deriva dall’essere figlio di Dio. Il caos è l’alternativa.
Silvano Spaccatrosi -Agensir-