ROMA – L’inno alla gioia, l’inno d’Italia. Il congresso del Pdl è finito. Tutti insieme salgono sul palco: ministri, governatori, membri dell’ufficio di presidenza e lui, Silvio Berlusconi, in mezzo che batte il tempo con la voce e il capo. Ha appena promesso che “porteremo l’Italia fuori dalla crisi senza lasciare indietro nessuno e difenderemo democrazia e libertà”. Qualcuno potrebbe chiedere di più? Quindi, tutti a cantare sul palco della Fiera di Roma col neo presidente del neo Popolo della Libertà. Lui li ha chiamati (“mi raccomando, le nostre dame in prima fila… Vieni qui, Gelmini…) e nessuno si è tirato indietro.
Tutti tranne Gianfranco Fini che a cantare non è andato anche perché non c’era. Come Schifani ha seguito il comizio da casa. Ieri, aveva illuso (e, forse, si era illuso) di poter avere dal congresso e da Silvio Berlusconi alcune risposte a una serie di urgenti domande sulle riforme istituzionali, il futuro economico e sociale del Paese, almeno sulla legge sul biotestamento. Forse, il premier lo ha avvisato prima che avrebbe parlato d’altro. “Magari, le risposte gliele dà un altro giorno”, ha commentato caustico, Roberto Menia, parlamentare di An, l’unico che resta critico sull’intera operazione.
Sgomberato il tavolo dalla necessità di rispondere a chicchessia, ne è uscito un discorso della più tipica “maniera” berlusconiana: un comizio fatto di affermazioni, di accuse agli avversari, di inviti a fare, di rivendicazioni del già fatto e della propria assoluta, insuperabile, eccezionale, travolgente bravura. Un discorso fatto anche ritmicamente per raccogliere applausi (settanta in settantuno minuti con quattro ovazioni), un discorso di storica autounzione con dentro, persino, l’unzione (ma l’aveva già fatto in passato) dei congressisti: “Avete un’altra missione: far crescere i consensi, vincere le elezioni e radicare il vostro partito. Vi nomino tutti missionari di libertà”.
Ora, dunque, la libertà ha anche i suoi missionari. Sono questi militanti del Pdl che sciamano fuori dalla Fiera, fieri di avere costruito il più grande partito di sempre. Berlusconi ha fatto anche sapere che, da ieri, il Pdl è già cresciuto di un punto (“Secondo i sondaggi abbiamo superato il 44% e puntiamo al 51%”) e ha annunciato la sua candidatura alle elezioni europee: “Pensiamo di diventare il primo gruppo all’interno del Ppe (lo chiama Popolo europeo; ndr). Per questo mi candido come fa un vero leader. Un vero leader che chiama a raccolta il suo popolo, sarebbe bello che anche il leader dell’opposizone (se ne ha uno) facesse altrettanto”. Candidatura del tutto scontata e già ribadita, negli interventi della mattinata da Verdini, Bondi e La Russa che hanno attaccato duramente il segretario del Pd Franceschini reo di aver sollevato la questione dell’opportunità di essere capolista dappertutto, visto che, poi, si dovrà dimettere. La Russa ha spiegato che Berlusconi dovrà trattare a livello europeo e, quindi, è giusto che si candidi alla Ue.
Niente risposte a Fini, dunque e tante accuse all’opposizione, alla famigerata sinistra che non ha un leader, che intralcia l’operosità del governo, che, sì, va coinvolta nelle riforme istituzionali, ma che recalcitra. Anzi, ha raccontato Berlusconi, “noi la riforma istituzionale l’avevamo già fatta nel 2005”. C’era dentro tutto quello che serviva: la camera regionale, più poteri all’esecutivo, modernizzazione dello Stato, cambiavano 50 articoli della Costituzione. “E loro – ha detto il premier – la sinistra, che oggi plaude alla riforma, si rifiutò di votarla e indisse il referendum per affossarla con insulti e accuse di regime”. Quindi, avverte il Cavaliere, “cercheremo di coinvolgere ancora la minoranza, ma intanto andremo avanti a definire le nostre proposte”.
Il comizio finale ha avuto un prologo con Berlusconi assente dalla sala che lo ha acclamato presidente. In realtà, Giorgia Meloni ha provato a seguire la procedura prevista del voto per alzata di mano: “Chi è d’accordo – ha detto – alzi il cartellino”. Poi si è un po’ bloccata forse all’idea di dover pronunciare un “chi è contrario?” che sarebbe suonato francamente ridicolo. “Si può fare anche per acclamazione”, ha finito per dire. E i delegati non aspettavano altro.
Berlusconi è partito dalla lettura del discorso della sua discesa in campo che era stato consegnato in elegante libretto ai delegati che l’hanno diligentemente sfogliato insieme a lui. Poi, l’elenco delle missioni del governo: uscire dalla crisi (tutte le cose già fatte, poco o niente sul da farsi), la scuola (tanto inglese, rivoluzione digitale, diploma utile, parità delle private, tagli agli sprechi e lotta alle baronie nelle università), le donne (basta con la disparità, legge sulla sicurezza), l’ambiente (“ambientalismo vero, non quello ideologico che, consiste, tra l’altro, nel ripulire i muri delle città dai graffiti e togliere cartacce e mozziconi dalle strade”). Infine, l’unica mezza risposta a Fini sulla riforma istituzionale senza però neanche una parola sul referendum.
Poi il finalone con l’unzione e la chiamata sul palco. La gente lascia la sala estasiata. Qualche definizione del discorso raccolta tra i delegati: “fantastico”, “meraviglioso”, “coinvolgete”, “mirabile”, “futurista”. Un delegato, non critico ma estasiato dice: “Fantasticamente scontato. Cose che sappiamo ma che ci piace sentirci ripetere”. Forse ha ragione lui.
Fonte: La Repubblica