Un trolley stracolmo in una mano, nell’altra tanti pacchetti in carta decorata, alla volta della stazione. Iniziano così le mie vacanze di Natale.
Il freddo è arrivato all’improvviso anche nella mite Bari, mentre mi incammino tra le strade decorate a festa non posso non notarlo, così come non passa inosservato quel traffico caotico, automobilistico ma soprattutto umano, tipico del periodo natalizio.
Cammino verso quel treno conscia che, una volta salita lì, sarò quasi a casa, ma la mia infantile euforia viene ripetutamente interrotta da un’immagine che non abbandona la mia mente.
Un immenso albero di Natale ‘imbandito’ di luce e decori all’ingresso del Policlinico.
All’inizio, qualche settimana fa, averlo notato per me è stato solo un segnale che indicava come il tempo stesse correndo e come anche quest’anno fosse già arrivato Natale. Presa dai tanti impegni universitari, quell’albero era quasi una pesante incombenza alla mia vista, una lancetta su un quadrante di un orologio che correva troppo veloce. Ho imparato a ignorarlo.
Con il passare dei giorni, come da prassi, mi è capitato di girare diversi reparti e alla fine dei lunghi corridoi, passeggio e luogo di piccoli svaghi per i pazienti, spuntavano tanti alberelli luminosi. Addirittura in alcuni istituti ci si era cimentati anche con l’allestimento del presepe.
A queste istantanee scattate dalla mia vista, si aggiungevano voci sempre più frequenti, di quelle che ascolti involontariamente mentre sei in ascensore, sulle scale o sempre in reparto. Infermieri, ausiliari, per lo più donne di mezz’età a confronto su quell’unico argomento: “Di che turno capiti? Cosa cucinerai alla vigilia?”
Il ripetersi delle stesse scene mi ha fatto prendere coscienza di come le feste fossero ormai alle porte. La realtà più triste però l’ho maturata pian piano dentro di me.
Ogni giorno io, come tutti gli altri studenti, ma anche i medici, gli infermieri e tutti i lavoratori di questa grande “azienda della salute”, varchiamo quell’ingresso imponente e architettonicamente ben riuscito, consapevoli che trascorreremo, chi più chi meno, alcune ore della nostra giornata, al termine della quale, che sia alba, sera tarda o primo pomeriggio, ognuno di noi tornerà nella propria casa, tra i propri cari, alla propria vita.
Quando il freddo secco di dicembre segna sulla tua pelle che il Natale sta arrivando, questa consapevolezza diviene sempre più forte, così come la voglia di uscire dal Policlinico per correre a comprare gli ultimi regali per i propri figli o magari fare la valigia e tornare dalle proprie famiglie dopo settimane trascorse fuori per le lezioni.
C’è chi però questa libertà alla fine della giornata non ce l’ha. Genitori che per quest’anno forse i regali li riceveranno soli, certo non potranno passeggiare tra i negozi per sceglierli per i loro figli. Ci sono bambini che non potranno pensare che Babbo Natale sia sceso dal caminetto della loro casa, si accontenteranno di credere che le renne l’abbiano lasciato all’ingresso della clinica pediatrica. Ragazzi che festeggeranno il Capodanno con gli specializzandi, magari loro coetanei, di turno l’ultima notte dell’anno. Donne e uomini che, per rendersi conto che la festa è arrivata, dovranno guardare fuori dalla finestra della loro camera, cercare quelle luci colorate sull’albero, chiudere gli occhi e immaginare come avrebbero voluto trascorrere quelle ore, alleviati dalle loro sofferenze.
Sarà Natale anche per i genitori, i fratelli, i figli, le sorelle, le mogli, le fidanzate, di chi forse non si accorgerà che è il 25 dicembre e che, mentre gli altri festeggiano, starà lottando tra la vita e la morte, tra le preghiere dei cari a Gesù Bambino, che di nuovo nasce.
La sofferenza non va in vacanza.
Vincenza Colucci
(pubblicato anche nella rubrica “Fuori Terra” di questo sito)