Che cosa deve essere importante per un politico? È la domanda centrale che ha attraversato il discorso di Benedetto XVI durante la visita al Parlamento federale tedesco, al Bundestag. Il Papa ha parlato da tedesco ai suoi connazionali e insieme da vescovo di Roma in un clima di grande attenzione e di rispetto. Ne è stata prova la lunga ovazione finale, oltre alcuni applausi durante il discorso; il Papa è, persino, riuscito a suscitare la simpatia dei presenti, improvvisando una battuta non scritta nel discorso. Questi segnali esterni sono importanti perché Benedetto XVI, ancora una volta, ha smentito le funeste previsioni di alcuni e ha coinvolto in prima persona i presenti. Gli ingredienti? La mitezza e l’umiltà con cui si è posto e la forza persuasiva della parola, con la quale ha aiutato a capire il momento storico in cui viviamo. Queste premesse sono importanti, perché la grandezza del discorso di ieri pomeriggio appare soprattutto dai contenuti, ma anche dalla partecipazione dei deputati presenti. E non poteva essere diversamente, dal momento che il Papa ponendo una domanda ha interessato tutti: chi non vorrebbe essere un buon politico? Chi non vorrebbe essere governato da buoni politici? Al di là degli schieramenti, la questione riguardava ciascuno. E non solo all’interno del Parlamento tedesco.
Quale deve essere la cosa più importante per un politico? “Il suo criterio ultimo e la motivazione per il suo lavoro come politico – ha detto Benedetto XVI – non deve essere il successo e tanto meno il profitto materiale. La politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto”. La politica è un impegno per la giustizia, ma qui si apre un evidente problema: come determinare ciò che è giusto, cioè ciò che è conforme al bene? In molte questioni ci si può servire del voto della maggioranza. Però è evidente che nei temi fondamentali del diritto, dove è in gioco la dignità dell’uomo e dell’intera umanità, il principio maggioritario non basta: “Nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento”. Come a dire non è la volontà del monarca o del Parlamento ad essere il criterio della moralità, ma è l’intelligenza, che si applica con fatica nel ricercare. E nessuno può sottrarsi a questo compito.
Come si riconosce ciò che è giusto? Nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è facilmente evidente. Il cristianesimo indica una via originale. Nel corso dei secoli esso ha costantemente rimandato alla natura e alla ragione, quali vere fonti del diritto; ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, a quell’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Ritorna qui un pensiero centrale, esposto dal Papa nel settembre del 2006 all’università di Regensburg: “Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”. Il cristianesimo invita a guardare con fiducia alla capacità della ragione di scoprire il vero e il bene e alla natura, che contiene in sé un progetto, una verità, posta dal Logos creatore. “Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione”.
Occorre interrogarsi, però, su quale ragione e su quale natura il cristianesimo faccia conto. Non di certo sulla ragione e sulla natura, che sono state notevolmente ridotte dal positivismo. Una ragione condannata a cercare e a valutare solo il verificabile, solo quello che rientra nelle conoscenze scientifiche; una natura che sarebbe solo un aggregato di dati oggettivi verificabili, di cause ed effetto. Al contrario uno dei motti di questo pontificato, che potrebbe essere posto accanto a quello del beato Giovanni Paolo II – “Spalancate le porte a Cristo” – è: “Allargate gli spazi della ragione!”. La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia “agli edifici di cemento armato senza finestre- ha detto Benedetto XVI – in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio”. Eppure Dio ha messo qualcosa di sé nella natura del cosmo e dell’uomo. Come il movimento ecologista degli anni Settanta ha ricordato che la materia non è solo materiale e, pertanto, va conservata e rispettata, così oggi bisogna dire che l’uomo non è solo bisogni o autonomia assoluta: ha in sé un progetto e un significato, da scoprire e secondo cui normare.
Benedetto XVI ha dato respiro alla politica ed ha aiutato i politici tedeschi a servire il bene comune. Le sue parole raggiungono anche il nostro Paese, per il quale egli stesso – salutando in volo il presidente Napolitano – ha invocato un forte rinnovamento etico.
Fonte: Marco Doldi – Agensir