Una città in balia di stessa – Lo Stradone

Una città in balia di stessa

Ormai nulla sembra più scalfire l’animo e la proverbiale flemma martinese. Qualunque episodio, negativo o positivo che sia, fa parlare la gente per qualche ora o, al più, qualche giorno. In piazza, nei negozi, al mercato o negli uffici le solite lamentele su questo o quello. I politici che si parlano addosso da una testata di giornale all’altra, con i botta e risposta che fanno felici cronisti ed editori, sempre più a caccia di polemiche e di notizie che spesso risultano essere, piuttosto, delle non-notizie. Una foto alla buca o al tombino rotto, un rimprovero all’amministratore di turno per l’asfalto sgarrupato nelle strade o per la ruggine sui pali della luce. Un articolo di indignazione sui vandali che non risparmiano più né i Santi né le scuole, distruggendo statue e frantumando vetri alle finestre delle scuole (costringendo i bambini a lezioni in aule improvvisate, altro che maestro unico o tempo pieno). Un altro “pezzo” sulle capacità di solidarietà dei martinesi, che meno male che sanno anche prodigarsi ed aiutarsi l’un altro (quando vogliono). E una miriade di associazioni che vogliono tutte ottenere la stessa cosa, ma purchè si dica che sia stata la sigla X ad ottenerla, e non la Y che invece parla, parla e non fa nulla (e guai a collaborare, sennò il merito se lo prendono gli altri…). Una litigiosità imperante che i bravi studiosi fanno risalire indietro nel tempo già al periodo del fascismo, quando i gerarchi stessi si susseguivano in numero impressionante, o anche più indietro, al tempo di crumiri e pipistrelli, le due fazioni che si contendevano la vita politica della città. Non sarà forse che ce l’abbiamo nel DNA, quella sorta di bipolarismo che si trasforma in accuse bipartisan, per sfociare poi nella logora e quanto mai abusata frase tanto-o-destra-o-sinistra-sono-tutti-uguali? Ma questi politici, fossero per caso dei marziani, sbarcati in città a bordo di una navicella spaziale proveniente dagli spazi siderali di Guerre Stellari? O non sono piuttosto l’espressione diretta di quella manina che ha impugnato la matita indelebile ed ha tracciato la X su questo o quel simbolo, depositando nell’urna la propria preferenza? E’ vero che le “defezioni” e i “salti della quaglia” da un banco all’altro del consiglio comunale non sono direttamente voluti dall’elettore, questa figura astratta ed eterea per il rispetto della quale nessuno va a casa e tutti urlano e sbraitano davanti alle telecamere o al taccuino di un giornalista. Ma è anche vero che i cittadini se ne stanno troppo spesso in un colpevole silenzio, rotto soltanto da una bestemmia tra i denti o da un commento al veleno. Parlando con un cittadino che ha visto la storia della città degli ultimi decenni anche alla luce del suo lavoro, è venuta fuori una frase, o un pensiero, che spesso serpeggia tra i martinesi. Parlando di questo o quel personaggio, una brava persona che vuole affacciarsi al mondo della politica, o si è affacciato da poco, si sente dire: «Ma quello, che deve fare in mezzo a quei marpioni della politica? Se lo mangiano in un sol boccone…». Ovviamente, questa è la “versione in prosa” della frase dialettale o delle espressioni molto più colorite che vengono usate, accompagnate spesso da una mano con le dita unite in verticale che ruotano a destra e sinistra, a volere definire il personaggio di turno come “un mammalucco” (ricordate Miseria e Nobiltà, con la compagna di Felice Sciosciammocca che inveiva contro Totò?). Quasi a dire che, un politico, per essere tale non deve certo essere “uno stinco di santo”. Insomma, siamo noi che lo vogliamo scaltro e senza scrupoli. E allora, di cosa ci lamentiamo? Se la gentilezza, la cortesia, la voglia di fare e di proporre qualcosa diventano “donchisciottismo”, ovvero la lotta contro i mulini a vento che con le loro enormi pale schiacciano e distruggono ogni azione, che senso ha più lamentarsi? E’ meglio starsene zitti, ed aspettare in silenzio che il cadavere del nemico, prima o poi, scorra lungo il fiume? O non è forse meglio alzare la voce davvero, e non perdersi in squallide e sterili proteste su vicende più o meno importanti, ma comunque fini a se stesse. E’ tempo che tutti apriamo gli occhi, perché la città non può più aspettare. E che non si additino come colpevoli sempre i soliti noti. Un po’ di colpa, forse, ce l’abbiamo tutti. Anche quando stiamo zitti. Ma anche quando gridiamo. Forse, è il tempo di agire. Prima che sia davvero troppo tardi.

Matteo Gentile
Fonte: Extra Magazine