A distanza di qualche giorno dalla chiusura del sipario di “Natale in Casa Cupiello” andato in scena il 22 dicembre al teatro Nuovo di Martina Franca, provo a fare qualche considerazione, frutto di esperienza personale, dunque assolutamente non oggettiva.
La prospettiva è inversa rispetto al solito, perché parte da dietro le quinte e si muove tra i fili del copione di Eduardo – quello rigorosamente originale-, letto e riletto insieme, imparato e ripetuto sera dopo sera, interpretato e non recitato, e la differenza è sostanziale. Chi scrive, lo spettacolo non l’ha visto in sala, l’ha vissuto dietro il sipario.
Dietro questo evento c’è tanto. In primis, la ricerca di quei sentimenti che hanno spinto il grande Eduardo a formulare i concetti e a impostare le scene, azioni di vita quotidiana nella Napoli di allora e ancora fin troppo attuali. Il principio è che se si comprende come funziona una persona, la si può amare od odiare di più o di meno, dipende. Quello che tecnicamente si dice “entrare nel personaggio” qui ha determinato l’impegno nel comprendere perché i fatti si evolvono in un certo modo, dal primo al terzo atto. Il lato comico di Lucariello (Gabriele Santacroce) custodisce la grande dignità di quest’uomo che, nonostante l’umile menage familiare, preferisce un po’ di brodo vegetale e 200 grammi di tubettini in più piuttosto che accettare i favori – e le galline – del ricco e amabile Niculì (Eugenio Caliandro). E viene fuori, nel suo splendore, l’accoglienza delle case del Sud, quel naturale aggiungere un posto a tavola anche se da mangiare c’è poco e se quel +1 è Vittorio (Gianni Lenoci) amante appassionato della ribelle e triste Ninuccia (Monica Montanaro). Fanno sorridere le diatribe esagerate tra Tommasino (Andrea Angelini) e “chillo scucciante” di zio Pasquale (Francesco Argese), ma fa ancora più riflettere che oggetto della lite siano scarpe e cappotto, per avere in tasca cinque lire in più e scansare “qualche malattia”. Donna Cuncetta (Francesca Serio) è la padrona di casa, la madre alla quale tutti vogliono bene, ciascuno a suo modo, colei che sa cosa significa amare davvero e cosa comporta, al contempo, dover rientrare nelle rigide regole di costume di una società che non prevede colpi di testa e separazioni. “Tu sei maritata” ripete alla figlia, come se fosse una strada già scritta, non più modificabile. Sennò, cosa devono dire? Le cose non si possono cambiare, o forse sì? A quale costo? A lei addebita in cuor suo, ma senza volerlo perché sempre figlia è, la causa del dolore che ne deriva. Eppure, anche nella Napoli post guerra dei Cupiello, i sentimenti veri trovano il modo per imporsi. Inconsapevolmente, la benedizione paterna arriva comunque sul “vero” amore. Lucariello non lo sa ma, stringendo le mani di sua figlia e Vittorio, riconosce a occhi chiusi la bellezza di un sentimento. È un vedere con gli occhi del cuore, il cui sguardo spesso si discosta da quello degli schemi quotidiani. E allora le cose possono cambiare, se si cambia prospettiva e ci si lascia guidare dai sentimenti veri, senza paura. Quanto vale ciò ancora oggi?
E poi c’è lui. ‘O presepio. E quello che è stato il mantra di una vita, prende forma dinanzi a don Luca e a sguardi che non possono vederlo, solo lui può, solo lui se ne inebria tra gli ultimi respiri.
Intorno alla famiglia, un nugolo di vicini (Antonio Tannia, Rosa Montepaone e Annamaria Grippa) tenuti a bada dalla fidata donna Carmela (me) che vicaria l’ordine della casa mentre il portiere dispensa caffè (Lino Lanna) e i coniugi Pastorelli (Donatella Serio e Saverio Veccaro) battibeccano se restare o andar via dopo la visita del dottore (Giovanni Speciale). Una piccola comunità che si stringe nei momenti belli e in quelli meno belli, che fa pettegolezzo, sì, ma che è anche capace di supportare e unirsi all’occorrenza. Una rete sociale reale che forse oggi è andata persa sostituita da followers e social che il caffè, di certo, non lo fanno. Tra risate e riflessioni serie, è chiaro che ‘o caffè è sacro, l’unica cosa sulla cui qualità non si deve risparmiare. Dinanzi a una tazza di caffè ruota la vita domestica, l’accoglienza degli ospiti, il risveglio mattutino, i tempi della narrazione. Allora come oggi.
E dietro le quinte abbiamo compreso che il pubblico c’è e dona tanto se lo si rispetta lavorando duramente, studiando e concentrandosi. E che ogni risata è sinonimo di tempo comico rispettato. E che ogni applauso è segno dell’essere riusciti a trasmettere qualcosa.
Il teatro di Eduardo De Filippo è ineguagliabile, è vero, e Pasquale Nessa lo sa, ne ha avuto rispetto reverenziale, religioso quasi, sin dai primi incontri. La regia, coadiuvata da Francesca Sibilio, è stata attenta e dietro ogni movimento c’è stata la spiegazione del perché proprio quella parola, quella intenzione, quel movimento. Una lezione per il cast, sera dopo sera.
Donatella Gianfrate