MARTINA FRANCA – Riportiamo di seguito integralmente il lungo discorso del sindaco Franco Palazzo in occasione della cerimonia per i 150 anni dell’Unità nazionale svoltasi lo scorso 17 marzo al Teatro Verdi.
Lo straordinario impegno di tutta la Città, nella quale si sono mobilitate e si mobiliteranno le forze migliori, non è casuale ma si collega, intimamente, alla grande vitalità democratica dei martinesi e allo straordinario attaccamento di essi a quegli ideali di libertà, che nel 1799 spinsero la nostra città ad aderire alla sfortunata ma esaltante esperienza della Repubblica Napoletana, superando la dimensione campanilistica, per proporre l’afflato solidaristico di un popolo unito, esempio per tutte le città e per la stessa capitale dell’antico Regno di Napoli.
Quando in quell’anno esplose la “rivoluzione”, innescata dalla conquista francese del Regno borbonico, Martina si distinse per il corale sacrificio del suo popolo e non come moto opportunistico, altrove per lo più vissuto come forzata aderenza alle istanze provenienti dagli intellettuali che reggevano la Repubblica.
La cronaca di quei giorni è esaltante nel racconto dei cronisti dell’epoca e nella letteratura storica.
Giunse a Martina, come in tutta l’Italia meridionale, l’ordine d’innalzare nei centri abitati l’Albero della Libertà, simbolo del nuovo corso democratico e repubblicano.
Era il 6 febbraio 1799, Mercoledì delle Ceneri, e nessun martinese, preso dall’entusiasmo della novità, immaginava quanto di tragico sarebbe accaduto nel giro di poche settimane.
Un geniale ed estroso falegname apparecchiò un bellissimo albero di legno, inghirlandato di edera e di coccarde tricolori, mentre gli intellettuali locali componevano eleganti sonetti inneggianti alla democrazia, animati dal maestro Giuseppe Aprile, che musicò l’inno repubblicano, eseguito in ogni dove dalla banda musicale cittadina.
Sembrava una rivoluzione indolore, benedetta dal clero e dall’allora Arciprete don Francesco Semeraro, sostenuto dall’Arcivescovo di Taranto monsignor Giuseppe Capecelatro, prelato di sentimenti repubblicani.
Nulla lasciava presagire il peggio, perché tutt’intorno già si organizzava la controrivoluzione per ripristinare la legittimità monarchica del Borbone.
Dall’interno delle antiche mura di Martina, considerate, forse troppo ottimisticamente, un’eccellente difesa da aggressioni esterne, si organizzavano le contromosse di alcuni “galantuomini” rimasti fedeli al re, mentre all’esterno infuriavano le formazioni legittimiste.
Locorotondo, Conversano, Massafra, Ceglie, Oria, Campi Salentina, Lecce e, infine, Taranto caddero in rapida sequenza sotto l’aggressione delle truppe di Ferdinando Quarto, guidate da Giovanni Battista De Cesare e da Giovanni Francesco Boccheciampe, due ufficiali della Corsica al soldo degli inglesi.
Questi nel vicino casale di Monteiasi si spacciarono per prìncpi reali e sfruttarono abilmente tale stratagemma, arruolando e organizzando truppe che in breve “realizzarono” le province di Lecce e di Bari.
Solo tre comuni resistevano all’avanzata realista: Altamura, Acquaviva e Martina.
Da noi, coraggiosamente si decise di resistere, nonostante i difensori della città assediata disponessero solo di qualche centinaio di fucili da caccia, di un cannone prelevato dalla torre costiera di San Leonardo (oggi Pilone) e di un altro di legno, costruito da quello stesso falegname che aveva realizzato l’Albero della Libertà.
I martinesi opposero i loro petti al preponderante e potente parco di artiglieria, strategicamente posizionato dai legittimisti, fronteggiandoli con incredibili atti d’eroismo.
Il tradimento della città, perpetrato dall’agente del Duca, fece irrompere dal Palazzo Ducale un’orda selvaggia di saccaioli, che sottopose la città al saccheggio e a violenze inaudite.
Era il 17 marzo di 212 anni fa: giorno in cui Martina con onore e con dignità pose il seme di quel processo storico, che germoglierà nel Risorgimento e che fruttificherà con l’Unità Nazionale, che oggi stiamo celebrando.
Una data fatidica, il 17 marzo, per Martina e, soprattutto per l’Italia, giorno in cui 150 anni fa, Vittorio Emanuele Secondo, firmava il decreto con cui si proclamò la nascita del Regno d’Italia.
E’ doveroso ricordare, proprio oggi, che il 16 marzo di 33 anni fa, fu rapito Aldo Moro, ispiratore della nostra costituzione, statista di indiscussa valenza internazionale, vittima sacrificale della barbarie stragista, simbolo eterno del nostro vivere democratico e della nostra ferma opposizione a quanti intendono stravolgere quell’ordinamento statale, che è fulcro del nostro andare sulle strade storia e della civiltà.
Aleggiano, dunque, su questo consesso gli spiriti eletti dei figli migliori di Martina.
Quegli eroici protagonisti dell’esaltante esperienza repubblicana proto risorgimentale, che fu il 1799.
Gli eroici patrioti, laici ed ecclesiastici, che impegnarono la loro vita e spesero le loro sostanze per perseguire ideali di libertà e di uguaglianza sociale.
E qui ricordo il sacerdote capitolare Vincenzo Lupoli, che animò le giuste rivendicazioni contadine per la ripartizione dei demani comunali e che fu fervido sostenere delle istanze democratiche esplose nel Regno di Napoli nel 1848, finendo al confino penale di Ventotene e vivendo da emarginato nel nuovo stato unitario, del tutto ignorato dai “nuovi liberali”.
E, poi, la splendida figura di Giuseppe Fanelli, che, fin da giovane, combatté valorosamente in tutte le battaglie del nostro Risorgimento e che fu a capo del Comitato Segreto dei patrioti di Napoli, collaborando con Carlo Pisacane nell’organizzazione della sfortunata spedizione dei “Trecento” di Sapri.
Il 5 maggio del 1860 Fanelli era allo scoglio di Quarto per imbarcarsi con i Mille; si battè come un leone a fianco di Giuseppe Garibaldi e fu riconosciuto da Nino Bixio come l’eroe di Calatafimi, battaglia in cui venne gravemente ferito.
Pur deluso dalla svolta moderata e monarchica del nuovo stato italiano, alla cui affermazione aveva dedicato l’esistenza e i suoi cospicui beni di famiglia, continuò a difendere il pensiero del suo intimo amico Giuseppe Mazzini nel Parlamento nazionale, dove venne eletto per tre volte consecutive.
Si spense miseramente in una clinica psichiatrica di Napoli, calunniato e oltraggiato, immotivatamente da Giovanni Nicòtera, divenuto Ministro dell’Interno nel governo De Pretis nel marzo del 1876: nell’anno in cui la Sinistra Liberale assumeva la guida della nazione, Giuseppe Fanelli fu tacciato, al pari di tutti i protosocialisti definiti come “gente oziosa, perduta e criminale”.
Alla sua memoria c’inchiniamo reverenti e mi auguro che nella sua Martina questi brevi cenni biografici possano ridestare dall’oblio un grande e generoso patriota: “Eroe della Patria, Eroe dell’Umanità”, come ebbe a definirlo lo storico Antonio Lucarelli.
Né posso dimenticare che l’Arciconfraternita del Carmine versò un sostanzioso contributo al “Comitato Pro Garibaldi” per sostenere la spedizione dei Mille; né i seimila voti buttati dai martinesi nell’urna del Plebiscito.
Ricordo i deputati martinesi dei primi parlamenti dello stato unitario, portatori di istanze sociali mutuate da un antico impegno popolare.
Le migliaia di giovani che hanno donato la loro vita nelle trincee del Monte Grappa e dell’Isonzo, affinché Trento e Trieste fossero finalmente italiane.
Quanti hanno combattuto per la libertà nelle formazioni partigiane contro il regime fascista e l’invasore nazista, molti dei quali finirono nei campi di concentramento.
L’indimenticabile Alfonso Motolese, medico di profondo sentire e di grande dirittura politica, rappresentante della nostra città fra i padri costituenti.
I numerosi martinesi che con dolore sono stati costretti a emigrare al Nord o nei più diversi paesi, spinti dalla fame di lavoro, nel quale essi credevano come esigenza salvifica.
Quanti hanno occupato con onore le più alte cariche istituzionali dello Stato, fra i quali eccelle la figura di Giuseppe Chiarelli, presidente della Corte Costituzionale.
Nel trentennale della scomparsa devo anche citare l’indimenticabile concittadino onorario Paolo Grassi, fondatore del Piccolo Teatro di Milano, sovrintendente del Teatro alla Scala, Presidente della RAI, Patrie Decus di Martina Franca nel 1979.
Quanti hanno rappresentato e rappresentano le istanze più autentiche del sentire comunitario, sedendo negli scranni del Senato e del Parlamento della Repubblica e nell’assise regionale.
Sostenuta dall’impegno e dall’eredità morale di tutti questi uomini, che hanno animato e animano il democratico incedere e il divenire della nostra città, Martina Franca partecipa alla celebrazione odierna dell’Unità d’Italia nella consapevolezza che oggi non si commemora solo un evento storico ma si guarda responsabilmente al futuro e al ruolo che la nostra Nazione ha e deve avere nel contesto mondiale.
Un ruolo, quello italiano, in un’Europa come interfaccia mediterranea di tutto il continente, in un’epoca di grandi incertezze per quei popoli che stanno faticosamente avviando un processo di democrazia e di libertà, promosso dai padri della nostra Patria e culminato 150 anni fa nell’Unità d’Italia.
Mi piace citare, in conclusione alcune brevi frasi del Presidente della Repubblica, pronunciate qualche giorno fa in una intervista rilasciata a un importante quotidiano francese:
“Bisogna pensare all’importanza di uno sviluppo unitario, su ambedue le sponde del Mediterraneo e di un rilancio della sua centralità per il futuro dell’Europa intera.
Il Mezzogiorno ha una parte decisiva da giuocare in questo sforzo.
Le celebrazioni del 150° della Fondazione del nostro Stato nazionale offrono l’occasione per mettere in luce non solo gli apporti del Mezzogiorno a una storia comune e ad una comune cultura ma le sue potenzialità nell’interesse di una crescita più sostenuta ed equilibrata del paese.
Dalle parole del presidente Napolitano emerge, e non poteva essere altrimenti, un messaggio di fondo, che non può essere disatteso: l’Italia deve riscoprire la sua coesione sociale per potersi rinnovare in ogni settore, traendo ispirazione dal sacrificio dei patrioti del Risorgimento e dal sangue versato nelle due guerre mondiali nel secolo scorso.
Nuove sfide attendono il Paese e tra queste emerge chiaramente la necessità di un rinnovamento, condiviso e sostenibile, rispettoso del dettato costituzionale ed equo per ogni regione.
Il 150° anniversario della Unità d’Italia è strumento di condivisione e mai dovrà essere occasione di divisione.
Il mondo avanza velocemente e l’Italia deve stare al passo del progresso economico, scientifico e sociale.
La premessa per affrontare positivamente il confronto sta nel mettere a frutto tutte le risorse e le potenzialità su cui possiamo contare, nonché nella consapevolezza di doversi esprimere come nazione unita, mai incline a derive disgreganti che ne metterebbero a repentaglio la sua coesione, faticosamente raggiunta.
E’ questo il senso autentico dell’odierna celebrazione, che ci spinge a gridare, “stretti a coorte”: VIVA L’ITALIA! VIVA GLI ITALIANI.