“Agire sull’istruzione e il sostegno ad un orientamento che renda evidente l’appetibilità dei diplomi tecnici e delle lauree tecnico-scientifiche”. Queste sono le leve che per Michele Colasanto, docente di relazioni di lavoro presso la Facoltà di sociologia dell’Università Cattolica di Milano, bisogna mettere in moto per rilanciare l’occupazione giovanile, non dimenticando però che “i giovani devono avere un sogno, guai se non fosse così, però in qualche modo bisogna mediare il sogno con la realtà”.
I recenti dati Istat descrivono una realtà della disoccupazione giovanile molto preoccupante, la peggiore dal 2004: come mai si è determinata questa situazione?
“La quantità di giovani che fanno parte o meno delle forze di lavoro può essere legata ad un processo di scolarizzazione perché studiano più a lungo. Quello che deve preoccupare è la disoccupazione che determina forti effetti di scoraggiamento, come accade attualmente. Nel nostro Paese ci sono anche dei fattori strutturali che ostacolano l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, dovuti al sistema di protezione, cioè degli ammortizzatori sociali, che tende a sostenere e a impedire l’uscita, attraverso la cassa integrazione degli occupati, bloccando l’accesso a coloro che sono disoccupati, ai giovani in particolare. La prova sta nel fatto che le aziende che sono in difficoltà preferiscono non rinnovare i contratti di lavoro atipici proposti ai giovani”.
Su quali leve strategiche si deve puntare per aumentare l’occupazione giovanile?
“Per il futuro bisognerà mettere in moto meccanismi di sostegno allo sviluppo, sapendo che esso avrà almeno tre ‘cuori’ occupazionali: manifattura e industria, servizi che comprendono anche la pubblica amministrazione e, infine, quello della cura e dei servizi alla persona. Nel breve termine però è necessario mettere in moto dei meccanismi che aumentino le chance occupazionali dei più giovani. Questi meccanismi sono sicuramente legati alla qualità dell’istruzione, che deve crescere, ma deve migliorare anche il suo rapporto con il mondo del lavoro, diventando più coerente, riducendo così l’attuale sfasamento tra domanda e offerta. Dobbiamo cercare anche di riconvertire in tempi brevi le lauree deboli con programmi formativi mirati a quelle che sono le esigenze del mondo del lavoro. Poi bisogna agire sui contratti d’ingresso e uno strumento che il nostro Paese ha a disposizione è il contratto d’apprendistato, che per sua natura garantisce formazione e una certa stabilità. All’interno degli strumenti per l’occupazione giovanile vanno presi in considerazione anche gli incentivi alle imprese. Si può pensare a soluzioni che rimandano al concetto di patto generazionale, dove per esempio, agli adulti vicini al pensionamento, può essere applicato una sorta di part-time, che possa, da un lato, valorizzare alcune competenze che l’azienda potrebbe perdere quando i lavoratori più anziani escono e, dall’altro, consentire una maggiore permeabilità all’ingresso dei giovani”.
Da più parti si parla di rilanciare il lavoro manuale come panacea di tutti i mali, ma forse, come accade spesso, il punto d’equilibrio sta nel mezzo: come stanno veramente le cose?
“Osservando tutte le previsioni sull’occupazione, comprese quelle internazionali, si vede che c’è un netto spostamento verso le professioni ad alta qualificazione, anzi si parla di una possibile difficoltà a trovare queste figure, anche perché sotto il profilo demografico i giovani stanno diventando una risorsa scarsa. Dall’altro verso, però, non viene meno tutto quello che riguarda il segmento del mercato del lavoro manuale, in parte operaio e in parte no, in questo caso rappresentato, per esempio, da personale in grado di fare assistenza ai malati. Devo dire che oggi quello che serve alle imprese manifatturiere non è il vecchio operaio, ma è una persona che ha la capacità di mestiere, perciò deve avere comunque un certo grado di qualificazione. C’è poi anche il lavoro manuale qualificato come quello dell’artigiano”.
Cosa cercano le aziende?
“Una cosa è sicura: l’industria ha bisogno di diplomati tecnici e, in più generale, di persone che abbiano competenze specifiche. Questo è necessario ma non sufficiente. Le aziende cercano persone che abbiano la disponibilità ad alcune competenze di tipo trasversale, come quelle comunicative e di lavorare in gruppo. C’è la necessità di persone motivate, c’è un ritorno al valore del lavoro anche in termini d’identificazione”.
Come mettere in comunicazione le aziende con i giovani?
“Noi abbiamo un deficit di orientamento e di comunicazione. Dobbiamo lavorare per migliorare questi strumenti che sono determinanti ai fini della ricerca di un impiego. Poi ci sono i tirocini e gli stage, strumenti che permettono d’accostare una buona formazione di base con un’esperienza di lavoro”.
Agensir