Il giudice competente ha depositato la sentenza relativa ai tre dirigenti di Google, ritenuti responsabili della diffusione di un video in cui si mostrava un alunno disabile preso in giro e picchiato da alcuni compagni di scuola. Il filmato è stato per lungo tempo uno dei più “cliccati” in rete. Lo scorso 24 febbraio i tre erano stati condannati a sei mesi, con la sospensione condizionale della pena, per violazione della privacy, mentre erano stati assolti dall’accusa di diffamazione.
Al di là dell’entità della pena e della sua eventuale efficacia, sono interessanti alcuni principi affermati dal giudice nelle 111 pagine della sentenza. Nel caso specifico, l’informativa sulla privacy era stata in qualche modo fornita ma – spiega il magistrato – era “talmente nascosta nelle condizioni generali di contratto da risultare assolutamente inefficace per i fini previsti dalla legge”. C’è da aggiungere che certamente nessuno ha chiesto alla vittima l’autorizzazione per diffondere il filmato di cui era suo malgrado protagonista.
La condanna era stata duramente criticata dall’ambasciata Usa a Roma, che aveva rivendicato il “principio fondamentale della libertà di internet” come elemento “vitale per la democrazia”. La sentenza risponde indirettamente all’obiezione, laddove specifica che non può esistere “la ‘sconfinata’ prateria di Internet dove tutto è permesso e niente può essere vietato”, pena una sorta di “scomunica mondiale del popolo del web”.
In effetti anche la democrazia mediatica, come qualunque altra, si fonda non sulla possibilità per chiunque di fare in assoluto ciò che vuole, ma su regole di base condivise e capaci di garantire al contempo i diritti di tutti, quelli propri come quelli altrui. Compreso quello di non vedere la propria persona e la propria immagine date in pasto alla pubblica curiosità senza un esplicito consenso.
La responsabilità di chi ha girato il filmato è evidente, come pure lo è – anche se in misura diversa – quella di chi non ne ha impedito la diffusione. Ma uno dei dati più inquietanti riguarda il tempo intercorso tra la pubblicazione del video su Google e l’intervento censorio. Le immagini erano state realizzate da alcuni studenti torinesi nel maggio 2006 e caricate sul sito nel settembre dello stesso anno. Soltanto nel marzo 2007 la vicenda era balzata agli onori delle cronache, con il conseguente sequestro del video e l’avvio delle indagini.
I moltissimi che nel frattempo hanno visto e rivisto il filmato non sono meno colpevoli di chi lo ha realizzato e di chi non ne ha impedito la divulgazione. Certo, si può sempre rispondere che lo si è guardato soltanto “per rendersi conto della brutalità degli aggressori” oppure “per verificare quanto la rete continui a essere un vero e proprio Far West”… La realtà è che tutti quanti siamo assai guardoni nel nostro approccio verso i media. E il fatto che questi ultimi facciano di tutto per catturare la curiosità del nostro sguardo non è un motivo sufficiente ad (auto)assolverci.
Come tutti i mezzi di comunicazione, Internet è soltanto uno strumento. La sua positività e la sua negatività dipendono da come viene utilizzato. Chissà perché, di fronte a una pagina web ci sentiamo tutti più disinvolti e per molti versi più stimolati a farci gli affari altrui. La connessione è solitamente un’attività individuale, mentre guardare la tv o leggere un giornale sono comportamenti spesso condivisi in pubblico. Forse per questo molti di noi si sentono autorizzati a spiare le faccende altrui o a visionare immagini “rubate” dai molti pirati del web che poi si divertono a renderle pubbliche.
Un po’ di sana autodisciplina renderebbe meno necessari gli interventi istituzionali di censura o di condanna. E indurrebbe qualche deficiente a resistere alla tentazione di filmare e rendere pubbliche le sue imprese a danno degli altri.