“La città ripudiata”: riflessione di Piero Marinò sul centro storico martinese – Lo Stradone

“La città ripudiata”: riflessione di Piero Marinò sul centro storico martinese

A fare una fotografia dell’attuale situazione del centro storico è il Prof. Piero Marinò, che qualche anno fa raccolse oltre 930 fotografie di Martina Franca nel volume “Martina Barocca e Rococò”, edito dalla Nuova Editrice Apulia.

Riportiamo uno stralcio di una sua interessante riflessione.

(…) già qualche tempo fa don Franco Semeraro mi aveva confidato, con grande rammarico, che le sue visite ad alcuni residenti nel centro storico vanno diradandosi sempre più. E non perché egli abbia minore voglia di portare la comunione in casa dei fedeli impossibilitati a muoversi, ma perché le persone che vi  abitano sono sempre di meno! E’ tristemente vero! Ma ripenso anche a tante lamentele, da parte di chi abita nel centro storico, nei confronti della delinquenza da cui queste persone devono difendersi. Gabriella Gallo ha segnalato spesso, su Facebook, episodi  e comportamenti incivili nei pressi della sua abitazione: sacchetti di rifiuti fuori posto, gente che orina per strada. Nel 2012 si verificò un omicidio ai danni di un’anziana. La cronaca segnala episodi e arresti connessi a spaccio di droga, furti, anche se, oggi, la situazione appare sotto controllo grazie all’impegno delle forze dell’ordine.

Se proviamo a percorrere le vie all’interno dei vecchi ‘casali’ ci rendiamo conto che l’abbandono ha assunto dimensioni preoccupanti, drammatiche: i cartelli “Vendesi” e “Affittasi” non si contano. E, per di più, le abitazioni che un tempo ospitavano famiglie numerose non vengono neanche messe in vendita. Sono abbandonate.

Qualcuno vede bambini giocare per strada?

Gli esercizi commerciali si sono concentrati su due linee direttrici:

  1. tra piazza Roma e piazza Garibaldi vi sono negozi e bar, trattorie, una macelleria, qualche negozio di abbigliamento destinati per lo più al consumo dei turisti;
  2. lungo le vie dell’estramurale, tra via Mercadante, via Rossini, via Donizetti, Pergolesi  e Bellini si affacciano le vetrine  e gli ingressi di alcuni studi professionali, qualche bar, un laboratorio fotografico, rivendite di articoli casalinghi, qualche fruttivendolo, una macelleria, un laboratorio tipografico, due farmacie, un paio di rivendite di sali e tabacchi.

Chi fa lo “struscio” lungo il Ringo è portato  a pensare (come in una canzone di Giorgio Gaber) “Com’é bella la città, com’é grande la città, com’è viva la città, com’é allegra la città,  piena di strade, di negozi, di vetrine…”. Ma se dal Ringo si esce e si prendono strade interne, laterali, lo scenario cambia: nelle zone di san Giovanni, Montedoro, san Pietro, la Lama è la desolazione più completa. Una città vuota!!! Un deserto. Non c’è vita!

Chi ancora abita nel centro storico ha una sola grande preoccupazione: barricarsi in casa.

Come è cambiata la storia di questa città, sguarnita nel giro di pochi decenni!

Quando la mia famiglia si trasferì a Martina, nel 1954, andammo ad abitare al terzo piano del palazzo Ruggieri, detto anche “dell’Eccellenza”, di fianco alla chiesa di san Martino. La popolazione era ancora per gran parte racchiusa nel centro storico. Fuori di esso c’erano solo poche palazzine popolari, in viale Carella, nelle zone dei Paolotti e della chiesa di san Michele, lungo la cinta muraria.

Le aree di ‘Fabbrica rossa’, della Sanità, intorno alla stazione, erano occupate da campagne, vigneti, orti, pinete.

Questo “esodo” ha radici profonde che meritano analisi ben più ampie di quella proposta in queste poche righe, ma è storia il fatto che Martina, nel corso dei secoli, ha coltivato il ‘vezzo’ di abbattere monumenti antichi, chiese di gran pregio, ricche di statue, affreschi, quadri, altari, pur di rinnovarsi e costruire nuovi edifici, religiosi e no. Le chiese della Madonna del Carmine, di San Domenico e San Martino, che oggi possiamo ammirare, sorsero, nel giro di pochi decenni,  abbattendo, in una sorta di irrefrenabile sventatezza autodistruttiva, i precedenti edifici religiosi.

Questa smania di rinnovarsi, di essere in linea con le tendenze dell’epoca non risparmiò i proprietari di case dominicali che, sulla scorta di quanto stava accadendo alle chiese barocche, non esitarono molto a far abbattere gli ingressi delle proprie residenze (portali rinascimentali? In bugnato?) per dotarsi di portali barocchi.

Nel suo volume dedicato a Martina Franca Cesare Brandi non mancò di sottolineare “questo impulso  a cancellare le tracce contadine o paesane e a rinnovarsi in senso puramente cittadino”. Anche Cosimo De Giorgi, autore de “La provincia di Lecce – Bozzetti di viaggio”  scrisse, parlando di Martina: “E qui noterò che Martina mostra di aver avuto molti e rapidi ingrandimenti; donde nasce che oggi non resta che poco o nulla del suo abitato primitivo. Se in altre città e paesi di Terra d’Otranto il nuovo si è aggiunto al vecchio, e di questo facilmente si scorgono le vestigia negli edifizi, nelle iscrizioni  e nei monumenti, in Martina invece il nuovo ha interamente sostituito il vecchio”.

Quando De Giorgi visitò Martina, nel 1880, era da poco iniziata una trasformazione epocale che doveva portare il centro storico, nell’arco di un  secolo,  a svuotarsi!

In una città che nel 1881 contava oltre 19.000 abitanti in gran parte residenti negli spazi angusti, umidi e bui del centro storico, che solo dal 1873 si era dotata di un regolare servizio di nettezza urbana, fu il sindaco Alessandro Fighera che diede, legittimamente, avvio ad una politica di modernizzazione favorendo la nascita di una nuova zona di espansione, il ‘borgo’, tra la chiesa di Sant’Antonio  e l’area in cui sarebbe sorto l’Ateneo Bruni. Le nuove residenze, più ampie e comode, costruite sulla scorta delle indicazioni contenute nel “Regolamento dell’ornato”, non erano accessibili, economicamente, alle famiglie più povere per cui la politica di Fighera, volta a liberare il centro storico da una altissima densità demografica, non conseguì i risultati sperati. Significative sono anche le  parole pronunciate il 4 ottobre 1886, dal sindaco Scipione Barnaba, esponente conservatore del partito avverso a quello di Fighera: “E’ d’uopo ormai che Martina, deposto il saio, vesta panni leggiadri e acconci, onde possa tenere tra le città sorelle il posto che le compete”.

Alla fine degli anni ’50 la maggior parte della popolazione era ancora arroccata all’interno della cinta muraria angioina.

Furono gli anni del boom economico e la nascita dell’ Italsider a favorire un periodo di speculazione edilizia durante il quale la città allargò, a macchia d’olio, la propria periferia soprattutto sul versante orientale e meridionale: la costruzione di palazzi nelle zone di Sant’Eligio, Fabbrica Rossa, Paolotti, via Mottola, Sanità, determinò un esodo senza precedenti dal centro storico  dal quale fuggirono, anche, farmacie, banche, esercizi commerciali più prestigiosi, studi professionali. Era come se le famiglie si allontanassero dalle vecchie residenze rinnegando, o cercando di cancellare, le proprie origini contadine. Quasi si vergognassero di abitare in vecchie costruzioni.

Nel giro di pochi decenni, a partire dagli anni ’70, la situazione si è rapidamente modificata, sotto i nostri occhi più o meno consapevoli e/o distratti.

Il centro storico, più conosciuto,  amato  e apprezzato dagli stranieri che dai martinesi, fu sguarnito, impoverito, svuotato, privato di senso.

Eppure questo problema fu avvertito da alcune persone più sensibili! Un grido di allarme fu lanciato, nell’ormai lontano 1975, nel corso di un convegno dedicato al centro storico, dalla rivista  Nuovapulia, da Armando Gnisci il quale, nel suo contributo “Ipotesi di lettura del centro antico di Martina Franca” a proposito della rimozione (furto!) della fontana di piazza Maria Immacolata così scriveva: “Mercato  e fontana non ci sono più: non sono decaduti e scomparsi per vicenda storica, travolti dalla rovina del tempo, né sono stati restaurati, sostituiti; sono stati letteralmente aboliti da una precisa volontà politico – legale di un’amministrazione pubblica. Si è deciso, in ultima analisi, di togliere vita (mercato, fontana) ad un luogo ombelicale della nostra città per realizzare un vuoto disponibile all’uso più volgare e disumano: quello automobilistico. Anche così cambiano le città!”

Poco oltre, approfondendo sempre più la sua lucida analisi, Gnisci concludeva con queste parole: “C’è come un generale e coatto sforzo maniacale di rinnegare, quotidianamente e sempre, le proprie origini di cultura e di classe: contadini dominati  e sfruttati, emancipati forse, anche con un piccolo blasone di nobiltà borbonica o austriaca, ma contadini”.

Al centro antico non ci sono più mercati, fontane, botteghe, arti  e mestieri: non c’è più vita né interessi (anche indotti come quello turistico folkloristico); c’è una linda miseria, un vuoto disponibile.

Il centro di Martina è disponibile (bianco e pulito come un elettrodomestico) in quanto bel manufatto urbano a qualsiasi uso e decollo. E’ una specie di merce di buona qualità in attesa di un qualsiasi compratore per un qualsiasi uso. Così noi, o chi per noi, lo abbiamo voluto, forse senza nemmeno saperlo”

Mancarono, agli amministratori dell’epoca, lungimiranza e amore per il proprio patrimonio artistico, coscienza storica della trasformazione in atto. Oggi ci ritroviamo con un centro antico vuoto, destinato al più completo abbandono,  e una città ‘nuova’ cresciuta a dismisura, in maniera caotica, disordinata. Senza un piano regolatore. Senza un progetto, senza una visione comune e condivisa!

A presidiare l’interno dell’antica cinta muraria angioina oggi sono i proprietari di case nobiliari e un numero sparuto di martinesi cui si sono aggiunti immigrati albanesi, rumeni e cinesi che hanno acquisito la cittadinanza italiana. Risiedere nel centro storico, oggi, è difficile, costa. Costa a causa dell’assenza di  servizi, farmacie, esercizi commerciali, parcheggi.

Ho chiesto al Sindaco di  sapere quante persone risiedono nel centro storico, ma il dato non è a disposizione dell’amministrazione e un dipendente comunale sta lavorando per fornirmi questa informazione.

La città prediletta dagli Angiò, cantata da Cito dè Citi, abbellita ripetutamente dai suoi abitanti, la città definita un ‘unicum’ per la presenza dell’arte barocca,  ammirata e amata da milioni di italiani e  stranieri,  la città che ha suscitato l’interesse e gli studi da parte di Isidoro Chirulli, Giuseppe Grassi, Cesare Brandi, Adriano Prandi, Giovanni Caramia e Michele Pizzigallo, Antonio Cofano,  Nicola Marturano e Giovanni Liuzzi, Angelo Marinò, dei collaboratori del gruppo Umanesimo della Pietra, di Francesco Semeraro e Oronzo Brunetti, la città che è stata pubblicizzata da Bell’Italia, set di spot televisivi e di film, sta agonizzando.

Che fare? Quale uso sarà fatto di questo meraviglioso manufatto artistico che abbiamo ereditato? Qual è il futuro previsto per il nostro centro storico da parte di chi sta redigendo il Piano Urbanistico Generale? Quale città stiamo per consegnare ai nostri figli e nipoti?